Anche i grandi a scuola vanno
Tutti i giorni di tutto l’anno.
Una scuola senza banchi,
senza grembiuli né fiocchi bianchi,
e che problemi, quei poveretti,
a risolvere sono costretti:
“In questo stipendio fateci stare
vitto alloggio e un po’ di mare”.
La lezione è un vero guaio:
“Studiate il conto del calzolaio”.
Che mal di testa, il compito in classe:
“C’è l’esattore, pagate le tasse”.
Ai vetri della scuola stamattina
l’inverno strofina
la sua schiena nuvolosa
come un vecchio gatto grigio:
con la nebbia fa i giochi di prestigio,
le case fa sparire
e ricomparire;
con le zampe di neve imbiancata il suolo
e per coda ha un ghiacciolo…
Sì, signora maestra,
mi sono un pò distratto:
ma per forza, con quel gatto,
con l’inverno alla finestra
che mi ruba i pensieri
e se li porta in slitta
per allegri sentieri.
Invano io li richiamo:
si saranno impigliati in qualche ramo
spoglio;
o per dolce imbroglio, chiotti, chiotti,
fingon d’essere merli e passerotti.
Che belle parole
se si potesse scrivere
con un raggio di sole.
Che parole d’argento
se si potesse scrivere
con un filo di vento.
Ma in fondo al calamaio
c’è un tesoro nascosto
e chi lo pesca scriverà parole
d’oro
col più nero inchiostro.
“Signor maestro, che le salta in mente?
Questo problema è un’astruseria,
non ci si capisce niente:
trovate il perimetro dell’allegria,
la superficie della libertà,
il volume della felicità…
Quest’altro poi
è un po’ troppo difficile per noi:
Quanto pesa una corsa in mezzo ai prati?
Saremo certo bocciati!”
Ma il maestro che ci vede sconsolati:
“son semplici problemi di stagione.
Durante le vacanze
troverete la soluzione”.
“….Vorrei, direi, farei….”
Che maniere raffinate
ha il modo condizionale.
Mai che usi parole sguaiate,
non alza la voce per niente,
e seduto in poltrona
sospira gentilmente:
“Me ne andrei nell’Arizona,
che ve ne pare?
O forse potrei
fermarmi a Lisbona….
“…Vorrei, vorrei…
Volerei sulla luna
in cerca di fortuna.
E voi ci verreste?
Sarebbe carino,
dondolarsi sulla falce
facendo uno spuntino…
“Vorrei, vorrei…
Sapete che farei?
Ascolterei un disco.
No, meglio, suonerei
il pianoforte a coda.
Dite che è giù di moda?
Pazienza,
ne farò senza.
Del resto non so suonare…
“ Suonerei se sapessi.
Volerei se potessi.
Mangerei dei pasticcini
se ne avessi.
C’è sempre un se:
chissà perché
questa sciocca congiunzione
ce l’ha tanto con me”.
C’era una volta
un povero Zero
tondo come un o,
tanto buono ma però
contava proprio zero
e nessuno lo voleva in compagnia
per non buttarsi via.
Una volta per caso
trovò il numero Uno
di cattivo umore perché
non riusciva contare
fino a tre.
Vedendolo così nero
il piccolo zero
si fece coraggio,
sulla sua macchina
gli offerse un passaggio,
e schiacciò l’acceleratore,
fiero assai dell’onore
di avere a bordo
un simile personaggio.
D’un tratto chi si vede
fermo sul marciapiede?
Il signor Tre che si leva il cappello
e fa un inchino
fino al tombino…
e poi, per Giove,
il Sette, l’Otto, il Nove
che fanno lo stesso.
Ma cosa era successo?
Che l’Uno e lo Zero
seduti vicini,
uno qua l’altro là
formavano un gran Dieci:
nientemeno, un’autorità!
Da quel giorno lo Zero
fu molto rispettato
anzi da tutti i numeri
ricercato e corteggiato:
gli cedevano la destra
con zelo e premura,
(di tenerlo a sinistra
avevano paura),
lo invitavano a cena,
gli pagavano il cinemà,
per il piccolo zero
fu la felicità
C’era una volta
una povera virgola
che per colpa di uno scolaro
disattento
capitò al posto di un punto
dopo l’ultima parola
del componimento.
La poverina, da sola,
doveva reggere il peso
di cento paroloni,
alcuni perfino con l’accento.
Per la fatica atroce
morì. Fu seppellita
sotto una croce
dalla matita
blu del maestro,
e al posto dei crisantemi e semprevivi
s’ebbe un mazzetto
di punti esclamativi.
C’era una volta un punto
interrogativo,
un grande curiosone
con un solo ricciolone,
che faceva domande,
a tutte le persone,
e se la risposta
non era quella giusta
sventolava il suo ricciolo
come una frusta.
Agli esami fu messo
in fondo a un problema
così complicato
che nessuno trovò il risultato.
Il poveretto, che
di cuore non era cattivo,
diventò per rimorso
un punto esclamativo.
C’era una volta un lago, e uno scolaro
un po’ somaro, un po’ mago,
con un piccolo apostrofo
lo trasformò in un ago,
“oh, guarda, guarda-
la gente diceva-
l’ago di Garda!”
“Un ago importante:
è segnato perfino sull’atlante”.
“Dicono che è pescoso.
Il fatto è misterioso:
dove staranno i pesci, nella cruna?”
“E dove si specchierà la luna?”
“Sulla punta si pungerà,
si farà male…”
“Ho letto che ci naviga un battello”.
“Sarà piuttosto un ditale”.
Da tante critiche punto sul vivo
mago distratto cancellò l’errore
ma lo fece con tanta furia
che, per colmo d’ingiuria,
si rovesciò l’inchiostro
formando un lago nero e senza apostrofo.
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